Wille e l’amore
Questa è la parte in cui mi tocca andare sul personale e parlare d’amore.
I miei libri mi costringono a viaggiare di frequente. Il mio karma è quello di vagare da un posto all’altro, come un pellegrino errante. Nel 1987, quando ancora vivevo in Venezuela, feci un giro di conferenze che mi portò dall’Islanda a Portorico, con in mezzo un bel po’ di climi, finché non mi trovai nella California settentrionale. Non sospettavo che là la mia sorte sarebbe cambiata ancora una volta. Incontrai l’uomo che era scritto nel mio destino, come avrebbe detto mia madre. Era un avvocato americano, William Gordon, che mi fu presentato come l’ultimo scapolo eterosessuale di San Francisco. Aveva letto il mio secondo romanzo e gli era piaciuto. Quando mi vide però rimase profondamente deluso, perché gli piacciono le stangone bionde.
Dopo il mio discorso fummo invitati a una cena in un ristorante italiano. C’era la luna piena e Frank Sinatra stava cantando “Strangers in the night”, quel genere di roba che rovinerebbe un romanzo. Willie era seduto di fronte a me, e mi osservava con espressione perplessa. La combinazione di Frank Sinatra e spaghetti di mare ebbe su di me un effetto prevedibile: caddi in preda al desiderio. Ero vissuta a lungo in castità… due o tre settimane per quel che ricordo, e così presi l’iniziativa. Gli chiesi di raccontarmi la sua vita. Questo trucco funziona sempre, signore! Chiedete a un qualunque uomo di parlarvi di sé, fate finta di ascoltare mentre vi rilassate e vi godete il cibo, e lui finirà per convincersi che siete una tipa in gamba e sexy. In questo caso, tuttavia, non fui costretta a fingere. Presto capii di essere incappata in una di quelle gemme rare di cui i narratori di storie vanno sempre a caccia: la vita di quell’uomo era un romanzo! Così feci quello che qualunque scrittrice latinoamericana normale avrebbe fatto: lo sposai per avere la storia. Beh, non lo sposai proprio subito, ci volle un po’ di abile lavorìo.
Come prima cosa mi invitò a casa sua. Mi aspettavo una serata romantica nell’attico di un divorziato con vista sul ponte di Golden Gate, soft jazz, champagne e salmone affumicato. Non ottenni nulla del genere. Nel garage c’era così tanta cacca di cane che dovette fare marcia indietro in modo che io potessi uscire dall’auto. Suo figlio minore, una peste di dieci anni, ci accolse con proiettili di gomma. Il golden retriever, che era iperattivo quanto il ragazzino, appoggiò le sue zampe infangate sulle mie spalle e mi leccò la faccia. C’erano anche altri animali domestici: una coppia di ratti psicopatici che si masticavano reciprocamente la coda in una gabbia lercia e il cadavere di un pesce che galleggiava sulle acque melmose di un acquario. Non feci una piega. Il desiderio fa questo effetto su alcune persone, le rende eroiche. L’uomo mi piaceva e volevo ascoltare il resto della sua storia. Servì un pollo bruciato, bevemmo vino californiano da poco prezzo e sorvolerò sul resto. Il giorno dopo, quando mi accompagnò all’aeroporto, gli chiesi educatamente se tra me e lui c’era qualche tipo di impegno. Diventò bianco come il gesso e le mani gli tremarono con tanta violenza che dovette sterzare. Non sapevo che non si deve MAI pronunciare la parola “impegno” davanti a un maschio americano.
– Ma di cosa stai parlando, ci siamo appena incontrati!, borbottò, atterrito.
– Ho 45 anni e non ho tempo da perdere, dissi. Avevo bisogno di sapere se questa era una cosa seria, o no.
– Quale cosa? – chiese, inebetito.
Quel giorno presi l’aereo, ma una settimana dopo ero già tornata senza essere stata invitata. Mi trasferii a casa sua e sei mesi più tardi fu costretto a sposarmi perché lo inchiodai al muro.
Sì, dopo tutto ho scritto la vita di Willie. Il libro si intitola “Il Piano infinito” ed è la storia di un uomo imperfetto, dal grande cuore.
Willie e io siamo insieme da molti anni e il nostro amore è sopravvissuto ad alti e bassi, a grandi successi e grandi perdite.