L’esilio
La prima parte della mia vita ebbe fine l’11 settembre 1973. Quel giorno in Cile ci fu un brutale golpe militare. Il presidente Salvador Allende, primo presidente socialista eletto democraticamente, morì. In poche ore nel mio Paese fu spazzato un secolo di democrazia, rimpiazzato da un regime di terrore. Migliaia di persone furono arrestate, torturate o uccise, molti scomparvero e i loro corpi non furono mai ritrovati. La famiglia Allende fuggì e coloro che erano all’estero non poterono rientrare. Io fui l’ultima a partire. Rimasi finché non fui più in grado di sopportare e poi scappai con mio marito e i nostri figli.
Andammo in Venezuela, un Paese verde e generoso. Era il periodo del boom petrolifero, quando l’oro nero sgorgava dalla terra come un inesauribile fiume di ricchezza. Tuttavia non riuscii a vedere il fascino del Venezuela. Ero paralizzata dalla nostalgia, guardavo sempre a sud, in attesa della fine della dittatura. Mi ci vollero parecchi anni per superare il trauma dell’esilio. Fui fortunata, trovai qualcosa che mi salvò dalla disperazione: trovai la letteratura. Sinceramente penso che non sarei diventata una scrittrice se non fossi stata costretta a lasciarmi tutto alle spalle e a ricominciare da capo. Senza il colpo di Stato dei militari sarei rimasta in Cile, sarei ancora una giornalista e probabilmente una giornalista felice. Nell’esilio la letteratura mi diede una voce, salvò i miei ricordi dalla maledizione dell’oblìo, mi permise di creare un universo tutto mio.
Il mio destino cambiò l’8 gennaio 1981. Quel giorno a Caracas ricevemmo una telefonata, mio nonno stava morendo. Non potevo tornare in Cile per dirgli addio e così quella sera cominciai a scrivere una specie di lettera spirituale per quell’amato vecchio. Pensavo che non sarebbe vissuto abbastanza per leggerla, ma questo non mi fermò. Scrissi la prima frase in stato di trance: Barrabás arrivò in famiglia per via mare. Chi era Barrabás, perché era arrivato via mare? Non ne avevo la più vaga idea, ma continuai a scrivere come un’ossessa fino all’alba, finché lo sfinimento mi vinse e io strisciai a letto.
– Che cosa stavi facendo? Borbottò mio marito
– Magia, risposi
E in effetti era qualcosa di magico. La sera seguente, dopo cena mi chiusi di nuovo in cucina a scrivere. Scrissi ogni notte, rimuovendo il fatto che mio nonno era morto. Il testo crebbe come un organismo gigantesco con molti tentacoli, e alla fine dell’anno avevo sul bancone della cucina 500 pagine. Non sembrava più una lettera. Era nato il mio primo romanzo, “La casa degli spiriti”. Avevo scoperto l’unica cosa che davvero volevo fare: scrivere storie.
Non potevo ancora ritornare in Cile. La dittatura militare sarebbe durata diciassette anni. Nel 1983 pubblicai un altro romanzo, “D’amore e ombra”, basato su un crimine politico commesso in Cile, e due anni dopo un terzo, “Eva Luna”, libro che ho a cuore perché è sulla vita di una raccontatrice di storie. Fu seguito da “Eva Luna racconta”, raccolta di 23 racconti brevi, tutti sull’amore, anche se talvolta l’amore è così contorto che è difficile riconoscerlo.
Nel frattempo la relazione con mio marito si era completamente deteriorata. Eravamo in Venezuela e non in Cile, così potemmo divorziare. Fu un divorzio amichevole, qualunque cosa esso sia.