Mia madre
Mia madre non era solo bella, era anche vulnerabile e piangeva sempre, il che risultava assai attraente perché faceva sentire forte anche il più inetto degli uomini. Aveva molti corteggiatori ma finì con lo sposare il più brutto di tutti. Il mio patrigno sembrava un rospo, ma con il tempo si trasformò in un principe e ora posso giurare che è quasi bello. Ha un cuore nobile, ma è patriarcale quanto lo era mio nonno. Non avevo altra scelta, a parte lottare con lui. Per una ragazza, la ribellione era l’unico strumento di sopravvivenza, nella nostra famiglia.
Il mio patrigno era un diplomatico, e non appena entrò nelle nostre vite cominciammo a viaggiare. Nel 1958 vivevamo in Libano. Quell’anno cominciarono le violenze politiche che poi avrebbero dilaniato il Paese. Io e i miei fratelli fummo rispediti in Cile e io finii per tornare a stare a casa del nonno. Avevo quindici anni ed ero così stanca di dire addio ai luoghi e alle persone che decisi che avrei messo radici in Cile e non avrei più viaggiato.
Quando ero bambina mia madre mi appariva come una vittima. Non aveva potere. Riusciva a ottenere l’attenzione solo quando era ammalata, così si ammalava parecchio. Naturalmente io non volevo diventare come lei, volevo diventare come il nonno. Ci stavo quasi riuscendo, ma attorno al mio dodicesimo compleanno la Natura mi tradì e sul torace mi comparvero due piccole prugne. All’improvviso divenni, da quel maschiaccio tosto e sicuro di sé che ero, una ragazza insicura e ridacchiante, con i foruncoli, un giro vita indefinito, e come unica preoccupazione quella di piacere all’altro sesso. Non avevo molta materia prima a disposizione, ero bassa e rabbiosa. Non riuscivo a nascondere il disprezzo che nutrivo per molti ragazzi, perché mi era chiaro che io ero molto più intelligente. Mi ci vollero degli anni per imparare a far l’oca in modo che gli uomini potessero sentirsi superiori.
Ero l’adolescente più infelice della storia dell’umanità. Mi odiavo. Avevo preso in considerazione l’ipotesi di farmi monaca per nascondere il fatto che non avrei mai adescato un marito. Potete immaginare la sorpresa e la delizia quando ricevetti la prima dichiarazione da un giovanotto. Avevo appena quindici anni ed ero così disperata che mi attaccai a lui come un granchio, lo sposai a diciannove anni, a ventitre anni avevo già due figli e rimasi sposata a lui per venticinque eterni anni. I primi quindici anni furono felici, eravamo davvero innamorati e avevamo due splendidi figli, Paula e Nicolas. Per un po’ tutto sembrò andar bene. La mia carriera di giornalista procedeva con successo e io ero conosciuta per i miei editoriali e programmi televisivi, femministi e spiritosi.
Ero stata allevata per seguire le orme materne. Ricordiamocelo, erano gli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta. In teoria avrei dovuto ignorare le mie ambizioni personali, controllare la mia rabbia, reprimere la mia immaginazione e negare la mia sessualità. Non funzionò praticamente mai.
Durante la mia giovinezza lavorai come giornalista e scrissi anche commedie teatrali e racconti per bambini. Avevo sempre sognato di diventare una scrittrice, ma ciò era quasi impensabile per una donna in quell’epoca e in quell’ambiente. Dalle donne della mia generazione in Cile non ci si aspettava che fossero creative e di successo, quello era un destino maschile. Da noi ci si aspettava che fossimo delle signore, che ci comportassimo graziosamente, che fossimo buone madri, buone mogli e buone cittadine (e io lo ero, credetemi). Ma avevo acquisito il vizio, già in età molto precoce, di raccontare storie. Mia madre dice che non appena imparai a parlare cominciai subito a torturare i miei poveri fratelli con racconti morbosi che riempivano di terrore i loro giorni e di incubi le loro notti. Più tardi la stessa pena toccò ai miei figli. Da che mi ricordo ho sempre raccontato storie, ma sono diventata un’autrice di narrativa a quasi quarant’anni. Prima non avevo abbastanza fiducia in me stessa ed ero troppo occupata nel badare alla famiglia e nel lavorare per mantenermi.